Locazione 

TASSAZIONE DEI REDDITI PER CANONI DI LOCAZIONE NON PERCEPITI

Alfred Bianco – Esperto tributario

Con una recente sentenza – che il c.d. uomo della strada farà fatica (condivisibilmente) a comprendere – la Sezione tributaria della Corte di Cassazione, peraltro sulla stessa lunghezza d’onda dei suoi precedenti, ha ribadito che risultano soggetti a tassazione, sia pure con i doverosi distinguo, i redditi derivanti dal rapporto di locazione anche se il locatore non ha percepito dal conduttore i relativi canoni.

La causa, decisa in sede di legittimità dalla sentenza n. 348 del 9 gennaio 2019, originava da un ricorso proposto da un contribuente – disatteso concordemente da entrambe le Commissioni tributarie (provinciale e regionale) – avverso l’avviso di accertamento per maggiore IRPEF per l’anno 2000 in relazione a canoni di locazione non dichiarati.

In particolare, il ricorrente aveva dedotto: a) che era comproprietario al 50% di un fabbricato ad uso laboratorio; b) che aveva, assieme al comproprietario, concesso in locazione in data 10 giugno 2000 l’immobile ad un conduttore; c) che non aveva mai percepito alcun canone locatizio, onde nella dichiarazione dei redditi era stato dichiarato unicamente il reddito catastale dell’immobile de quo.

Inoltre, lo stesso ricorrente allegava che, in data 27 ottobre 2006 – ossia successivamente all’accertamento dell’Ufficio, notificato al contribuente il 29 settembre 2006 – aveva comunicato all’Agenzia delle Entrate la risoluzione del contratto di locazione con effetto retroattivo a far tempo dall’11 giugno 2000  e che, in relazione a tale dichiarazione, veniva corrisposta regolarmente l’imposta di registro.

D’altronde, la validità/efficacia di tale dichiarazione di risoluzione del contratto era stata riconosciuta dalla stessa Agenzia in relazione ad altri avvisi di accertamento emessi nei confronti dell’altro comproprietario in relazione ad altre annualità; infatti, tali avvisi venivano annullati o in sede di giudizio di primo grado, a seguito di “adesione” dell’Agenzia alla domanda di annullamento dell’accertamento, con estinzione del giudizio, oppure nei provvedimenti emessi in sede di autotutela laddove l’annullamento era esplicitamente ricollegato alla “riscontrata inesistenza del presupposto impositivo”, posto che “il contratto non era più in essere per comunicata risoluzione anticipata all’11 giugno 2000”.

Diversa, invece, era stata la determinazione dell’Ufficio rispetto all’avviso di accertamento impugnato in questa sede: nello specifico, la Commissione tributaria aveva disatteso la prospettazione del contribuente, affermando che, in base alla normativa ratione temporis vigente (art. 23 T.u.i.r.), il locatore di immobili ad uso commerciale ha l’obbligo di esporre in dichiarazione il reddito derivante dai canoni di locazione, “ancorché non effettivamente percepiti”, essendo, per converso, esclusa una diversa determinazione del reddito da fabbricati su base catastale.

In tale prospettiva, il ricorrente in cassazione – denunciando violazione di determinate norme (anche di rango costituzionale) nonché prospettando vizi motivazionali – lamentava, in buona sostanza, che si era errato a non considerare l’intervenuta risoluzione anticipata del contratto di locazione di cui sopra a far tempo dall’11 giugno 2000 (intervenuta cioè successivamente alla notifica dell’accertamento, ma con valenza ex tunc), evento, questo, costituente punto decisivo per il giudizio, dipendendo da esso la sussistenza del presupposto impositivo, nel senso che non avrebbe consentito di far rientrare l’ammontare del canone non corrisposto nel calcolo della base imponibile.

A ben vedere, tale specifica circostanza, quantomeno sotto il profilo fattuale, risultava incontestata fra le parti, tuttavia, ne risultava controversa, sul versante giuridico, unicamente la sua efficacia – o, meglio, la sua opponibilità – nel confronti dell’Erario.

I giudici di Piazza Cavour – sia pure emendando la motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 384, comma 4, c.p.c. – hanno rigettato il ricorso del contribuente.

Al riguardo, si é osservato che, in base al combinato disposto dagli artt. 23 e 34 del d.p.r. n. 917/1986 ratione temporis vigente, il reddito degli immobili locati per fini diversi da quello abitativo – per i quali opera, invece, la deroga introdotta dall’art. 8 della legge n. 431/1998 – è individuato “in relazione al reddito locativo fin quando risulta in vita un contratto di locazione”, con la conseguenza che anche i canoni non percepiti per morosità del conduttore costituiscono reddito tassabile, e ciò fino a che non sia intervenuta la risoluzione del contratto o un provvedimento di convalida dello sfratto (v., tra le altre, Cass. 28 settembre 2016, n. 19240).

Con specifico riferimento alla prima ipotesi, ossia di scioglimento o risoluzione del contratto per mutuo consenso, secondo l’art. 1458, comma 1, c.c. – dettato in tema di risoluzione per inadempimento ma applicabile, salva diversa volontà delle parti, anche alla risoluzione consensuale – nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, l’effetto della risoluzione non si estende alle “prestazioni già eseguite”, cosicché non viene meno l’obbligo di pagamento del canone di locazione per il periodo, precedente alla risoluzione, durante il quale il conduttore ha goduto (o avrebbe potuto godere) della disponibilità dell’immobile locato.

Il comma 2 dell’art. 1458 c.c. prevede, inoltre, che la risoluzione, anche se è stata espressamente pattuita, non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione.

In tale quadro normativo, con riferimento alla sottoipotesi di accordo risolutivo al quale le parti abbiano espressamente attribuito efficacia retroattiva, gli ermellini (v. Cass. 18 novembre 2005, n. 24444) hanno espressamente affermato che il solo fatto dell’intervenuta risoluzione consensuale del contratto di locazione, unito alla circostanza del mancato pagamento dei canoni relativi a mensilità anteriori alla risoluzione, non è idoneo, di per sé, ad escludere che tali canoni concorrano a formare la base imponibile IRPEF, ai sensi dell’art. 23 del d.p.r. n. 917/1986, salvo che non risulti “la inequivoca volontà delle parti di attribuire alla risoluzione stessa efficacia retroattiva”, sottolineando che resta “impregiudicata, peraltro, ogni valutazione in ordine all’opponibilità di tale eventuale retroattività all’Amministrazione finanziaria”.

Proprio con riferimento al profilo dell’opponibilità dell’accordo risolutorio all’Amministrazione finanziaria, gli stessi magistrati del Palazzaccio – con orientamento condiviso dal supremo consesso decidente con la sentenza in commento – hanno più volte ribadito che l’ipotesi di successiva risoluzione dell’accordo contrattuale per mutuo dissenso, ai sensi dell’art. 1372, comma 2, c.c. “non può avere alcuna rilevanza nei confronti dei terzi ed a maggior ragione, quindi, nei confronti dell’Erario, non potendo, in particolare, pregiudicare la legittima pretesa impositiva medio tempore maturata per effetto di patti sopravvenuti tra le parti (v., ex multis, Cass. 30 aprile 2014, n. 9445; Cass. 23 febbraio 2011, n. 4366; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29745).

Rispetto a tale conclusione, neppure può assumere rilevanza – e anche questo non appare agevolmente comprensibile al cittadino medio – la mera circostanza che l’Ufficio, esercitando i propri poteri di autotutela, avesse provveduto ad annullare altri accertamenti, nei confronti del soggetto diverso dell’odierno ricorrente (ma il comproprietario dello stesso immobile) o in relazione ad altre annualità (ma riferite al medesimo rapporto locatizio).

Anche le ulteriori doglianze mosse dal contribuente sono state disattese.

Invero, il ricorrente aveva evidenziato l’omessa pronuncia da parte della Commissione tributaria in ordine a singole questioni prospettate in materia di risoluzione consensuale del contratto de quo o, in via subordinata, di risoluzione per inadempimento del medesimo accordo negoziale; lo stesso ricorrente aveva, altresì, denunciato la violazione dell’art. 23 del T.u.i.r., ratione temporis vigente, in relazione ad un’interpretazione costituzionalmente orientata ex art. 53 Cost., che consentisse al contribuente di dimostrare e far valere comunque, ai fini impositivi, la mancata percezione dei canoni di locazione.

Il sopra delineato motivo di censura – in forza di un approccio estremamente rigido – è stato considerato, per un verso, “inammissibile” con riferimento alla dedotta omissione di pronuncia in cui sarebbe incorso il giudice del gravame in ordine alle singole questioni sunteggiate nei termini indicati, posto che la stessa avrebbe dovuto essere fatte valere dal ricorrente ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.

Si è, in proposito, richiamato l’orientamento consolidato della magistratura di vertice – la quale, al contempo, non richiede, nella relativa articolazione, l’utilizzo di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi – secondo cui la deduzione di un’ipotesi di “omessa pronuncia” da parte del giudice di merito deve farsi valere mediante la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell’art. 112 c.p.c., e non già con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione ex art. 360, n. 5), c.p.c., giacché queste ultime censure presuppongono che lo stesso giudice abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente scorretto oppure senza giustificare o non giustificando adeguatamente la decisione resa.

Per altro verso, che più rileva in questa sede, il Collegio decidente ha ritenuto “infondata” la censura di violazione del citato 23, rammentando che la stessa Corte Costituzionale – con la sent. n. 362/2000, erroneamente indicata con il n. 230/2012 – ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 23, comma 1, 33, comma 1, 34, comma 1 e 4-bis, 118 e 134, comma 2, del d.p.r. n. 917/1986, sollevata, in riferimento agli artt. 53, 24 e 3 Cost., nella parte in cui tale disciplina assume quale base imponibile, ai fini della tassazione del reddito fondiario di un immobile locato, l’importo del canone locativo convenuto in contratto, anziché il reddito medio ordinario desunto dalla rendita catastale, anche quando, a causa della morosità del conduttore, tale canone non sia stato effettivamente percepito.

In particolare, i giudici della Consulta, in ordine all’ipotizzato contrasto con l’art. 53 Cost., hanno sottolineato che “la capacità contributiva, quale idoneità all’obbligazione di imposta, desumibile dal presupposto economico al quale l’imposta è collegata, può essere ricavata, in linea di principio, da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di costituzionalità, sotto il profilo della palese arbitrarietà e manifesta irragionevolezza (v., tra le altre, sent. nn. 143/1995, 315/1994 e 42/1992), ipotesi che qui non ricorrono”.

Quanto, poi, all’infondatezza della questione di illegittimità per violazione dell’art. 24 Cost., lo stesso giudice delle leggi ha evidenziato che “non vi sono, sotto questo profilo, spazi di rilevanza per l’eventuale prova del mancato pagamento, salvo le ipotesi, in appresso esaminate, che riguardano invece la cessazione del rapporto contrattuale di locazione e, quindi, il venir meno di un pagamento a titolo di canone locativo”.

In tal senso, la sentenza de qua ha richiamato le ipotesi di cessazione del rapporto di locazione per scadenza del termine (art. 1596 c.c.), o appunto quelle in cui si sia verificata una qualsiasi causa di risoluzione del contratto ex artt. 1453, 1454, 1456 e 1457 c.c., o, ancora, quella in cui sussista la possibilità di esercitare l’azione di convalida di sfratto (come forma “mista” diretta alla risoluzione e al rilascio).

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